VOILA’ … LA POLITIQUE! – Tecnologia e Lavoro [2a parte] di G.Intaglietta

(Rileggi 1a parte

Il XIX secolo si caratterizza per i ritmi e la diffusione della crescita, ma anche il secolo successivo, il Novecento, ha dei tratti distintivi: in tutta Europa la generalizzata crescita economica (con l’esclusione del periodo delimitato dalledue guerre mondiali)va di pari passo con il cambiamento strutturale dell’intera economia

 
Man mano che le varie economie crescono, incrementando il livello generale del PIL (sebbene come si è visto i benefici non siano sempre immediatamente condivisi da chi li genera).
E’ inoltre rilevabile un interessante sviluppo di questa evoluzione: nel momento in cui la tecnologia ha liberato risorse (per meglio dire: manodopera) nel settore dell’agricoltura, queste sono migrate nell’industria, e quando anche qui la tecnologia, soprattutto in veste di automazione, ha a sua volta liberato manodopera, questa ancora una volta si sta spostando, ora,verso i servizi.
Ma quando anche questo settore, cosiddetto terziario, sarà saturo, quando anche qui la tecnologia, l’informatizzazione e la robotica faranno gran parte del lavoro, cosa ne sarà del tempo liberato?
La soluzione più immediata sembrerebbe quella di restituirlo al libero utilizzo dell’individuo, proseguendo nel trend che, sia pure con alcune discontinuità all’interno dei decenni, mostra un inequivocabile diminuzione del tempo dedicato al lavoro.
In questo scenario va sottolineato che, se da una parte gli imprenditori hanno perseguito solamente il loro profitto, anche chi ha governato ha in qualche modo contribuito a creare questa situazione. Si sono adottate politiche del ‘lasciar fare’, sempre troppo inclini a facili liberalizzazioni ed al mondo della finanza piuttosto che a quello della manifattura. 
Posizioni che, troppo spesso, non curano gli interessi diffusi, ma sono attente ai cosiddetti ‘poteri forti’.
Qualsiasi futura azione di governo dovrà quindi evitare di cadere nella trappola della pura e semplice riduzione del costo dei fattori produttivi – e segnatamente del fattore lavoro.
La riduzione dei salarinon può essere in grado di colmare il gap del costo del lavoro rispetto a gran parte dei concorrenti che provengono da economie in sviluppo, ma rischia di spostare ancora un po’ più in là nel tempo l’orizzonte di una presa di coscienza collettiva da parte di imprenditori, politica e sindacato, di affrontare la necessità  di porre mano ai modelli di organizzazione del lavoro per attuare una modernizzazione non solo degli strumenti e dei macchinari, ma soprattutto del modo con il quale il fattore lavoro viene gestito nei processi produttivi.
Purtroppo però i vari soggetti che in passato hanno deciso le politiche del lavoro (politica/sindacato tradizionale/aziende) non hanno considerato almeno due problemi
Il primo è di una evidenza disarmante: con l’attuale assetto non c’è lavoro sufficiente a riempire la giornata di tutti i lavoratori. Anche prestandosi a lavori mal retribuiti ed al di sotto della propria professionalità, la disoccupazione (soprattutto giovanile) resta molto alta (in Italia, oltre il 34%). 
Il secondo è dato dal fatto che la qualità della vita del lavoratore (quello peraltro meno sfortunato che trova un impiego) peggiora drasticamente. Non avendo un lavoro stabile deve continuamente ritarare la propria vita e i propri ritmi, in funzione della richiesta del momento. 
Ma questo, se diffuso su larga scala, rende meno solida tutta la società, in condizioni di incertezza è più difficile programmare il futuro, che si tratti di acquistare una casa o costruire una famiglia, la stabilità (almeno relativa) è un requisito essenziale per condurre una vita dignitosa. Infatti questi tipi di lavoro “sono percepiti, alla lunga, come una ferita dell’esistenza, una fonte immeritata d’ansia, una diminuzione di diritti di cittadinanza che si solevano dare per scontati”
 
Definita l’insostenibilità della flessibilità come sistema principale, è anche necessario indicare la direzione per individuarne la soluzione. Questa è individuabile proprio nella regola che principalmente viene adottata dal mondo imprenditoriale per la definizione dei prezzi. Questo è tanto più alto quanto più l’acquirente ha la necessità del bene in vendita.
Esattamente nello stesso modo, giacché la flessibilità ha un valore per il datore di lavoro, questa, o meglio, il reddito erogato al lavoratore ‘flessibile’, dovrebbe essere molto più alto di quello previsto per il lavoratore non flessibile.

VOILA’ … LA POLITIQUE! – Tecnologia e Lavoro [1a parte] di G.Intaglietta

Negli ultimi due secoli il rapporto tra la quota di tempo dedicata all’onere di procurarsi l’occorrente per vivere, che per comodità, definiremo orario di lavoro, ed il totale di tempo a disposizione per sé, ha subito un trend che, pur non avendo avuto un andamento perfettamente lineare, si è via via ridotto, passando dalle 14 ore al giorno (con punte di 17) alle attuali 8.

Negli ultimi due decenni però, almeno nella maggior parte Paesi occidentali, e segnatamente in Italia, si è avuta un’inversione di tendenza: chi entra nel mondo del lavoro in forme sufficientemente stabili tende a dover dedicare più tempo a questo scopo di quanto ne dedicano (o ne hanno dedicato) le generazioni precedenti.
Il principale imputato di questa situazione nuova è ‘la flessibilità e quindi tutta la precarizzazione del mondo del lavoro.
E’ probabile che, in futuro, il problema sia essere destinato ad una soluzione, ma l’incognita è la tempistica: si tratta solo di un ‘inciampo’ di (relativa) breve durata e che quindi si ricomporrà nel giro di pochi decenni, oppure siamo di fronte ad un declino di lunga durata?

Un principio che ha un ruolo importante in questo contesto è la coscienza di classe: la contrapposizione che porta alla lotta tra classe sfruttante e classe sfruttata è un elemento determinante per il trend precedentemente descritto.
Quando iniziò la rivoluzione industriale furono subito evidenti gli enormi profitti generati dai lavoratori, ma incassati dagli imprenditori. Nonostante ciò non vi fu nessun riallineamento automatico, il surplus veniva conteso – in maniera non molto diversa da quello che ancora oggi è riscontrabile – tra i lavoratori che lo generavano ed i proprietari degli strumenti che lo permettevano.

Il riconoscimento di un limite temporale al lavoro giornaliero del salariato rappresentò ben presto una delle principali rivendicazioni dei lavoratori e sindacali nel sistema delle fabbriche. 

Nonostante le condizioni che oggi definiremmo disumane, le regolamentazioni dell’orario di lavoro tardarono ad affermarsi per via legislativa. Anzi negli ultimi decenni del diciottesimo secolo, si registrò un notevole peggioramento in termini di orario di lavoro, nel senso che questi si allungarono notevolmente rispetto ai decenni precedenti. A seguito di ciò si registrarono le prime iniziative di lotta dei lavoratori finalizzate all’ottenimento di una riduzione dell’orario di lavoro.

Ben presto l’ambiziosa battaglia per le otto ore giornaliere accomunò la classe operaia della gran parte dell’Europa, ma i primi successi furono conseguiti solo dopo la Prima guerra mondiale.

In Italia, con l’avvento delle contestazioni di massa della fine degli anni ’60 (in particolare il cosiddetto Autunno caldo del 1969), si ottenne un graduale raggiungimento delle quaranta ore settimanali.

Nonostante questo trend si sia positivamente sviluppato praticamente in tutto il mondo occidentale, negli ultimi decenni cessa di essere alimentato dalle lotte di classe, e quindi si ferma. [Segue]

Dott. Giorgio Intaglietta